Dalle pagine nascoste di Procidablues ecco apparire le prime ghost tracks: i vostri racconti dedicati alla nostra isola. Con cadenza settimanale, ogni lunedì (per iniziare bene la settimana), troverete una storia scritta da un amico di Procida: aspettiamo anche la tua! Mandala a procidablues@gmail.com. Buona lettura!
Ghost track n.1
Lina Scotto di Fasano
Da tempo, insieme a Carmelina, la mia amica d’infanzia, progettavamo di ritornare giù agli scogli di “Villa Maria”, oggi “La Rosa dei Venti”, un tranquillo residence immerso nel verde.
Questo luogo è stata la mia casa natia: circa cinquant’anni fa fu preso in affitto dai miei genitori. Era una semplice casa colonica, un po’ diroccata ma con tanta campagna. In quegli anni questo pezzo di terra era un grande vigneto che costeggiava il mare. Papà e mamma vi lavorarono tanto ma troppo spesso non c’era un soldo d’introito per i danni che il raccolto subiva. Per la sua particolare collocazione geografica, è una terra esposta ai forti e freddi venti che spirano da Nord, il resto poi lo faceva la salsedine venendo su e distruggendo la semina delle patate e delle altre colture. Così nel giro di qualche anno si trovarono a vivere in una condizione di estrema indigenza e furono costretti a cercare casa e lavoro altrove. Ne trovarono un’altra non tanto lontano e così insieme alle mie amichette ci tornavamo per i nostri giochi. In quella dimensione di terra “selvaggia” e di profumi abbiamo vissuto la nostra fanciullezza, le nostre complicità, le piccole baruffe, i fantastici e magici bagni giù agli scogli…
Speciali ricordi, emozioni, che da tempo ci promettevamo di rivivere.
Così, verso la fine di settembre, in una mattinata di calma e di sole, ci siamo sentite e in un baleno abbiamo deciso. Una telefonata a Gianni, l’attuale proprietario, che cortesemente non ci ha negato l’esperienza…e via! Montate sulle nostre bici, abbiamo iniziato il viaggio a ritroso per riportare al presente le semplici e intense gioie di un tempo.
Lungo il piccolo tratto di strada che ci separava da quel “magico incontro” eravamo pervase da una sensazione di totalizzante bellezza, ci sentivamo “leggere”, pedalavamo spedite verso quella “culla” che ci aveva fatto crescere.
Ai nostri occhi molto di quell’ambiente ci è apparso trasformato…ma osservando bene notammo che qualche elemento aveva resistito, negli anni aveva tenuto duro superando la “follia” dell’uomo che tutto distrugge per cementificare. La loro presenza ci ha riportate alla memoria quei pomeriggi trascorsi giù al “Cavone” (così come lo chiamavamo noi del posto).
C’è ancora l’albero di sorbo, il castagno (che raggiungevamo attraverso il tetto della casa di Carmelina per fare bottino dei suoi speciali frutti) ma non c’è più (per fortuna!) il grande fosso dove ci si versava di tutto e dove spesso vi scivolava il nostro pallone. Il recupero diventava così ardua impresa e, tra qualche lacrima e un’imprecazione, finiva il nostro gioco.
La discesa agli scogli è stata rifatta e adesso si presenta comoda, mentre nei nostri ricordi era molto precaria e a tratti la si faceva stando sedute, lasciandosi scivolare pian piano fin giù, tenendo le manine ben fissate alla terra battuta. Appena finite le scale c’è una lunga feritoia, uno strapiombo, dove non è consigliabile affacciarsi, almeno così tuonava l’avvertimento delle nostre mamme. Se si osa farlo, s’intravede una sottile striscia di mare, di un blu intenso, scuro e si ha la sensazione che vi si venga attirati. Quel posto è chiamato “a rott ri frat”. La leggenda narra che vi perirono due fratelli: il primo precipitò accidentalmente mentre raccoglieva erba, l’altro per prestargli aiuto finì allo stesso modo. Di conseguenza quel lembo di costa, per noi procidani, esercita nel tempo un’attrazione negativa dovuta a quel remoto e disperato grido d’aiuto che mai nessuno poté ascoltare.
Il proprietario ci ha mandato un suo dipendente per sistemarci la scaletta, dalla quale avremmo potuto fare qualche tuffo. Gli siamo state grate dell’attenzione, ma noi non eravamo lì solo per farci un bagno, ma soprattutto per il profondo desiderio di rileggere la vita trascorsa, per respirare la spensieratezza dei tempi andati, provare le forti emozioni alla vista del nostro mare di Villa Maria… nel quale non ci tuffavamo quasi mai, ma non per l’eccessivo “traffico”marino ma soprattutto per il timore del suo profondo.
Ma la natura, che crediamo benevola, aveva pensato anche a noi e alle nostre paure.
Al centro di questa bella fetta di costa c’è un insenatura che porta acqua a due piccole vasche comunicanti, una “ci si fa piede”, l’altra, molto più profonda, ci permetteva di sguazzare indossando un piccolo salvagente. Anche quando il mare era molto agitato noi non lo temevamo, ci sentivamo protette. Attraverso quella insenatura, l’acqua s’infiltrava spumeggiante e con una tale energia che oggi avremmo potuto dire di stare in una vasca idromassaggio.
Sdraiate sulla roccia ci guardavamo intorno: tutto era immutato, gli scogli ricoperti di cozze erano lì ad aspettarci e noi con l’entusiasmo di un tempo ci siamo messe all’opera. Di tanto in tanto una alzava il tono della voce con esclamazioni di estrema meraviglia per averne trovata una bella grossa e subito si accendevano le immagini dei tempi andati quando con una manciata di cozze, qualche patata, un pacco di spaghetti e qualche bicchiere d’olio di semi, trafugato dalla dispensa di mamma, organizzavamo le fatidiche cene tra amici del vicinato. Le esperienze e i ricordi si accavallavano, l’una suggeriva all’altra qualche aneddoto che sfuggiva. Ricordavamo che una di quelle sere l’olio era risultato pochino e le patate non le si riusciva a friggere, così mi toccò ritornare a casa e in punta di piedi per non farmi scoprire dalla mamma, ne dovetti trafugare un altro bicchiere. E lei l’indomani si struggeva cercando di capire come e quando avesse consumato tanto olio. Tutto questo ci meravigliava e ci faceva riflettere su come era possibile trascorrere un serata speciale con poche e semplici cose, senza strafare o sciupare come avviene oggi.
Poi ritornavamo ad ammirare il presente. A piccole bracciate, dagli scogli di punta Faro, stavano arrivando alcune signore per fare bottino delle ignare cozze. Dava pace al cuore ammirare la loro calma e spensieratezza nell’attraversare quello che per noi era un guado pericoloso. Emergeva il vissuto e ci rendevamo conto che avevamo ancora paura del suo colore plumbeo, del profondo, ma anche di quella zona non esplorabile della nostra vita delle quali non veniamo a conoscenza, di quelle “ferite” con le quali non riusciamo a fare “pace”.
Erano circa le 14,30 quando riprendemmo la piccola gradinata che ci riportava su. Una breve sosta per fissare ancora una volta quello scorcio di costa intrisa di memorie.
Salendo strappammo alcuni grappoli di bacche rosse: era per il bisogno incessante di portarci a casa un qualcosa del mondo antico, dal quale ancora non ci eravamo distaccate.
Ci salutammo con il desiderio di ritornarci, facendo questa considerazione: la nostra è una storia di donne come tante, rimaste bambine spensierate ma solo nei ricordi.
Lina Scotto di Fasano, procidana, è nata il 18 aprile 1957 e collabora da sempre con l’associazione di volontariato M.A.I.A. Altri suoi scritti sono pubblicati sulla rivista Narrazioni.